N. 33 Giugno 2004 | L’Europa deve ritrovare la via verso la federazione

La disunione dei governi verso la guerra in Iraq, la stagnazione economica, il ritorno dei nazionalismi, le difficoltà che incontra la ratifica di un trattato chiamato pomposamente costituzione sono tutti segnali che l’Europa rischia la dissoluzione se non sappiamo riprendere la via verso la federazione.

La guerra in Iraq è stata il più clamoroso esempio della totale incapacità di agire dell’Europa, della paralisi prodotta dalla sua divisione, della sua inesistenza come soggetto politico nei rapporti internazionali. Alcuni dei governi dei suoi Stati membri si sono lasciati invischiare in un’avventura che i loro cittadini rifiutavano e il cui esito catastrofico era largamente prevedibile. Altri, che pure avevano avuto un riflesso di orgoglio e avevano tentato di far valere la loro autonomia, sono stati costretti ad assistere impotenti ad una vicenda sanguinosa e insensata che la presenza di un attore indipendente e autorevole avrebbe potuto scongiurare. Uguali conclusioni si devono trarre dallo scoraggiante spettacolo della completa assenza dell’Europa dal teatro della tragedia israelo-palestinese e della sua completa rinuncia al ruolo di mediazione e di proposta che le è naturalmente attribuito dalla storia e dalla sua situazione geografica.

Nel frattempo l’area dell’euro sta attraversando una lunga fase di stagnazione economica, che aumenta il suo ritardo nei confronti degli Stati Uniti e del Giappone. Il suo sistema produttivo è sempre più esposto alla concorrenza di economie meno sviluppate, ma ben più dinamiche, come quella cinese. Le prospettive di benessere delle famiglie in Europa si stanno drasticamente ridimensionando. Lo stesso euro, che prima della sua creazione era considerato come un passo decisivo verso l’unità politica del continente, è messo a rischio dalla sempre più evidente incapacità dei governi degli Stati che lo hanno adottato di adeguarsi alle regole del patto di stabilità, che pure dell’euro costituiscono le condizioni di funzionamento. La dura realtà dei fatti sta dimostrando che non possono far parte a lungo della stessa area monetaria governi con politiche economiche e di bilancio indipendenti. Ed è evidente che l’allargamento non farà che aggravare ulteriormente un problema già gravissimo.

L’Unione europea è sulla via della disgregazione. Il nazionalismo, anche se nella forma meschina del provincialismo, sta facendo ritorno. L’Europa sta uscendo dalla storia e i suoi cittadini accettano passivamente un ruolo di crescente subalternità.

Di fronte a tutto questo è stupefacente l’incapacità degli uomini di governo e dei partiti europei di cogliere la gravità del momento storico che l’Europa sta vivendo. Esiste certo una generica consapevolezza dell’esigenza che l’Europa “parli con una sola voce”, ma manca del tutto quella della strada da percorrere perché questa esigenza non rimanga un pio desiderio dai contorni indeterminati, e diventi una drammatica presa di coscienza che preluda a decisioni radicali. Basta prendere atto dei progetti nei quali essa si manifesta, che non vanno al di là dell’auspicio di un rafforzamento della collaborazione tra Stati sovrani: siano essi il progetto della formazione di una sorta di direttorio anglo-franco-tedesco, già condannato alla paralisi dalla totale divergenza di vedute tra i suoi membri in materia di politica estera; o quello della sottoscrizione e della (peraltro assai improbabile) ratifica di un nuovo trattato, pomposamente chiamato “costituzione”, che apporterebbe soltanto innovazioni di tipo cosmetico alla struttura attuale delle istituzioni comunitarie senza intaccare minimamente la sovranità degli Stati membri.

Il fatto è che non si può più rinviare il momento nel quale deve essere posto il problema della creazione di un potere europeo e del quadro nel quale esso può essere inizialmente creato. Un potere europeo non può nascere da nessuna confederazione, da nessuna unione doganale o monetaria, da nessun congegno istituzionale, per quanto complicato, che lascino intatta la sovranità degli Stati. Perché quello della sovranità è il problema, che non può essere aggirato, ma deve essere affrontato. E la sua soluzione implica la creazione di un esercito europeo, sottoposto ad un governo democratico, che si sostituisca agli eserciti nazionali e di un bilancio europeo autonomo, alimentato da tributi imposti direttamente ai cittadini.

Ciò significa trasferire a livello europeo i poteri della spada e della borsa. Ma questi sono i poteri che definiscono la statualità. Perché l’Europa parli con una voce sola è necessario quindi che essa diventi uno Stato federale. Si tratta certo di un obiettivo difficile. Ma esso indica la sola via d’uscita dall’impasse nella quale l’Europa si trova perché, se oggi purtroppo ha una credibilità e un senso affermare, come ormai molti fanno, che il tempo delle speranze europee è finito e che l’unità europea è diventata un sogno irrealizzabile, non ha né una credibilità né un senso sostenere che l’unità europea si può fare riscrivendo le regole dell’Unione, ritoccandone le istituzioni e lasciando intatta la sovranità degli Stati.

Nello stesso tempo non ha alcun senso porsi il problema della fondazione dello Stato federale europeo senza porsi quello del quadro nel quale questa fondazione può avvenire. E’ inutile continuare ad illudere sé stessi e gli altri fingendo di credere che l’unità politica dell’Europa possa nascere come per incanto da una coincidenza di intenti tra i governi di venticinque paesi profondamente diversi per grado di sviluppo economico, per tradizioni politiche e per struttura sociale, la grande maggioranza dei quali vede nell’appartenenza all’Unione europea soltanto un’opportunità economica da sfruttare e deve rispondere ad opinioni pubbliche che considerano la sovranità nazionale un bene prezioso da difendere. La verità è che il processo di rilancio dell’unità europea può avvenire soltanto attraverso la creazione di un nucleo federale nel quadro dei paesi fondatori (inizialmente con o senza l’Italia): o altrimenti non avverrà affatto. Né ha senso affermare che i paesi fondatori non costituiscono la massa critica sufficiente per tener testa ai grandi attori dell’equilibrio mondiale, e in primo luogo agli Stati Uniti. Un nucleo federale composto dai paesi fondatori, anche senza l’Italia, avrebbe una popolazione di quasi 170 milioni di abitanti, e quindi superiore a quella del Giappone, cioè di un attore riconosciuto dell’equilibrio mondiale: e il nucleo federale iniziale sarebbe aperto all’adesione di tutti i paesi europei che ne accettassero la costituzione e quindi sarebbe destinato a non rimanere a lungo nella sua composizione iniziale, ma ad espandersi rapidamente fino a raggiungere le dimensioni dell’intera Europa. Come non ha senso, infine, criticare la proposta del nucleo federale perché essa dividerebbe l’Europa. In realtà l’Europa è già divisa, e la sua divisione si approfondisce, nei comportamenti reali, ogni giorno di più. Bisogna che qualcuno abbia il coraggio di invertire la tendenza e di riprendere, compiendo l’indispensabile primo passo, il cammino dell’unità.

Publius

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