N. 14 Maggio 2000 | Il Consiglio europeo di Tampere non passerà alla storia

Il Consiglio ha deciso che rappresentanti delle istituzioni europee e dei Parlamenti nazionali elaboreranno una Carta europea dei diritti fondamentali. Ma l'Europa non ha bisogno di un’altra dichiarazione, ma di creare un potere federale che, proteggendo e promuovendo la dignità, la sicurezza e il benessere dei cittadini dell’Unione, di quei diritti consenta la realizzazione.

Il Consiglio europeo di Tampere, in esecuzione di una decisione di massima presa a Colonia, ha attribuito ad un “organo” nel quale sono rappresentati i Capi di Stato e di governo dell’Unione, la Commissione, il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali il compito di elaborare una Carta europea dei diritti fondamentali. La cosa ha suscitato un forte interesse all’interno del Parlamento europeo e in alcuni ambienti europeisti e molti si sono già messi all’opera per tentare di esercitare un’influenza sui lavori di questa assemblea. Si ritiene da più parti che essa, se opportunamente orientata, potrà svolgere un’opera costituente, o parzialmente costituente, o precostituente.

È un dato di fatto che le costituzioni dei paesi democratici contengono per lo più come loro parte integrante (o nella forma di emendamenti nel caso della Costituzione degli Stati Uniti) una dichiarazione dei diritti. Così come è un dato di fatto che l’imposizione da parte del popolo al monarca di una dichiarazione dei diritti è stata, in Gran Bretagna e in Francia, alla base della nascita dello Stato liberaldemocratico. L’elaborazione di una dichiarazione dei diritti sembra quindi essere un esercizio di natura prettamente costituzionale. Eppure è difficile sottrarsi all’impressione che i capi di Stato e di governo vogliano portare i parlamentari europei (e nazionali) sul terreno dei diritti fondamentali per allontanarli da quello della riforma delle istituzioni.

L’Europa occidentale è oggi una delle regioni del mondo nelle quali il rispetto dei diritti fondamentali è più largamente garantito e più diffusa è la consapevolezza della necessità di definire e riconoscerei nuovi diritti connessi con gli sviluppi della tecnologia e l’aumento dell’interdipendenza. Per contro è vero che le istituzioni democratiche, che del rispetto dei diritti fondamentali costituiscono il presidio, si stanno indebolendo in tutti gli Stati membri dell’Unione, e che si affievolisce ovunque il consenso che le sostiene. Sarebbe un segno di irresponsabilità negare che esiste ovunque un disagio sociale che alimenta la crescita di partiti populisti, xenofobi e autoritari e che già oggi in molti casi compromette, anche gravemente, il rispetto di alcuni dei diritti umani più elementari, soprattutto – ma non solo – di quelli connessi con il fenomeno dell’immigrazione. Ma la causa di questo preoccupante stato di fatto, che a termine può mettere in pericolo la democrazia in Europa, non va ricercata in una carenza di dichiarazioni solenni, anche giuridicamente vincolanti, o in una loro insoddisfacente formulazione, bensì nell’incapacità strutturale delle istituzioni nazionali e di quelle dell’Unione di risolvere problemi concreti come quelli dell’inserzione degli immigrati nel tessuto produttivo (o della disoccupazione giovanile, o del risanamento delle periferie delle grandi città, o di molti altri). Il problema di fondo non è quindi quello di elaborare un’altra dichiarazione dei diritti, bensì quello di creare le condizioni politiche e istituzionali che di quei diritti consentano la realizzazione.

Queste condizioni si riassumono nella creazione di un potere federale europeo che, proteggendo e promuovendo la dignità, la sicurezza e il benessere dei cittadini dell’Unione (e di coloro che vi emigrano alla ricerca di condizioni di vita tollerabili), metta un freno al degrado della politica, ripristini il circuito di fiducia che deve esistere tra le istituzioni e i cittadini, e garantisca a questi in primo luogo il più fondamentale dei diritti, che oggi viene loro sistematicamente e consapevolmente negato: quello di scegliere – con la mediazione di un Parlamento pienamente sovrano – un governo che non sia una conferenza diplomatica incapace di decidere, nella quale si confrontano e si scontrano – al di fuori di ogni controllo degli elettori – interessi nazionali divergenti, ma l’espressione democratica dell’interesse generale europeo. Senza una democrazia federale europea i fondamenti stessi dello Stato di diritto in Europa occidentale sono destinati irrimediabilmente ad incrinarsi.

Quando (e se) verrà redatta la Costituzione della Federazione europea, essa sarà senz’altro preceduta da un preambolo che conterrà una dichiarazione dei diritti. Ma oggi si vuole redigere un preambolo senza costituzione. E questo non potrà essere che un puro esercizio declamatorio. Un’indicazione di fini non accompagnata da quella dei mezzi per realizzarli è del tutto inutile. O meglio è dannosa perché impegna in dispute bizantine energie preziose distogliendole dal vero compito strategico, che è quello del cambiamento della situazione di potere e dei meccanismi decisionali. E lo è tanto più in quanto costituisce la via della facilità, quella che consente di attirare consensi senza pagare prezzi, e che quindi viene naturalmente seguita dai politici in cerca di popolarità.

È stato detto che l’organo varato a Tampere potrà assumere un’importanza decisiva non tanto per la natura dei problemi che dovrà affrontare quanto per la sua composizione, che prevede, insieme alla presenza di rappresentanti dei capi di Stato e di governo e della Commissione, quella di Parlamentari europei e nazionali. In particolare la partecipazione dei Parlamentari europei prefigurerebbe una sorta di co-decisione costituzionale che, una volta entrata nella prassi dell’Unione, potrebbe essere estesa, anche forzando la volontà del Consiglio, alla riforma dei Trattati. Va da sé che se uno o più parlamentari europei sapranno battersi validamente per ottenere questo risultato, essi andranno fortemente sostenuti. Ma non bisogna farsi illusioni. Il Parlamento europeo dispone già di forti strumenti di pressione e di ricatto nei confronti del Consiglio. Esso potrebbe teoricamente farne uso fin d’ora per rivendicare il suo potere costituente. Ma nella situazione e nella sua composizione attuali esso non è in grado di farlo sia perché la stragrande maggioranza dei suoi membri non ha alcuna intenzione di avventurarsi al di fuori della routine legislativa e della retorica delle risoluzioni sia perché esso non si sente comunque abbastanza forte per impegnarsi in una prova di forza con il Consiglio.

La sola strada che deve oggi percorrere la minoranza che, dentro il Parlamento europeo e fuori di esso, è consapevole del carattere decisivo della fase alla quale è giunto il processo di unificazione europea è quella di concentrare le forze, con tenacia e rigore, e senza lasciarsi coinvolgere in manovre diversive, sull’obiettivo strategico della fondazione di un potere federale, e di lavorare pazientemente per allargare il raggio della propria influenza sulla classe politica e sull’opinione pubblica.

Publius

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