N. 44 Luglio 2007 | Per un patto federale tra i Paesi fondatori

Con il trattato di Lisbona il processo di integrazione europea senbra essersi arenato. Il salto federale da parte di un gruppo di Paesi resta quindi l'unico strumento per creare le condizioni per affrontare le sfide globali che minacciano l'Europa.

Illudersi, o cercare di illudere le opinione pubbliche, come hanno fatto i Capi di Stato e di governo il 21-22 giugno scorso a Bruxelles, che il rilancio dell’Europa dipenda dall’adozione di un Trattato di riforma più o meno semplificato rispetto a quello costituzionale, significa sottovalutare le cause profonde dell’impotenza dell’Europa. Esse affondano le loro radici nel fatto che nel quadro dell’Unione europea le potenzialità del processo di unificazione si sono ormai esaurite, come dimostra l’involuzione dei rapporti tra gli Stati membri, sempre meno collegati ad un’ottica europea di reciproca integrazione e sempre più dipendenti dalle decisioni che gli USA, di nuovo la Russia e ormai anche la Cina prendono in campo militare, in quello dell’energia e in quello delle politiche commerciali e monetarie.

Il fatto sconcertante, confermato dall’andamento e dalle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo, è che gli europei sembrano non volere, o non potere, aprire una nuova fase per ridare un futuro al progetto di unificazione nonostante gli effetti che la loro inazione ha sul deterioramento degli stessi quadri politici nazionali e della loro affidabilità e credibilità politica in campo internazionale. Non è casuale in proposito il sussiego con cui sempre più spesso gli esponenti dei grandi Stati continentali extraeuropei trattano gli emissari delle istituzioni europee o dei singoli Stati, alla stregua di come venivano trattati dai re di Francia e Spagna gli ambasciatori degli ancora ricchi, ma già impotenti, staterelli italiani del Cinquecento, come ha documentato Machiavelli nei suoi scritti.

Alla luce di tutto ciò, è bene lasciare ai tecnici l’esame dei presunti avanzamenti e arretramenti e degli immancabili leftovers e protocolli applicativi del nuovo Trattato, e rimettere ai governi ed ai loro esperti il compito di districarsi dal ginepraio istituzionale che essi stessi hanno contribuito a creare. La questione di potere da risolvere è un’altra: si tratta di creare al più presto il potere europeo minimo necessario per far uscire i paesi europei dalla spirale di declino e di emarginazione che hanno imboccato dagli inizi degli anni novanta del secolo scorso.

Dopo il crollo del muro di Berlino e dopo aver preso la decisione di creare la moneta europea, le classi politiche e di governo dei paesi europei occidentali, e dei fondatori in primo luogo, erano di fronte alla scelta tra portare a compimento un’operazione difficile ma possibile, quella di fare la federazione europea, e limitarsi a subire gli avvenimenti che spingevano in direzione dell’allargamento ai paesi centro-orientali, tentando la quadratura del cerchio istituzionale di una Comunità europea ormai senza confini. La scelta della prima opzione avrebbe implicato prendere una iniziativa coraggiosa e lungimirante per fondare un primo nucleo federale europeo. Quella scelta non fu fatta, ed è per questo che gli europei sono costretti a subire passivamente le inevitabili conseguenze derivanti dalla diluizione dell’Unione europea in un’area di libero scambio, e quelle legate all’apertura dei mercati nazionali senza un governo europeo dell’economia e della moneta.

La responsabilità di quel grave errore politico che, col passare del tempo, rischia di diventare anche un irrimediabile errore storico, ricade soprattutto sui governi e sulle classi politiche dei paesi fondatori, per i quali avrebbe dovuto risultare già allora evidente che la federazione non era più un obiettivo di là da venire, successivo a chissà quale ulteriore passo avanti e in attesa di chissà quali tempi più maturi: il salto federale nel processo di integrazione europea era già nella prima metà degli anni novanta, e a maggior ragione è ora, lo strumento – l’unico – per affrontare le sfide globali di fronte alle quali i paesi europei si trovavano e si trovano. Le vicende degli ultimi anni hanno confermato la gravità di quell’errore e hanno reso più evidenti le contraddizioni di un quadro che si vuol mantenere formalmente unitario ma che in realtà, per quanto riguarda le aree cruciali, resta diviso. Come dimostrano le integrazioni differenziate avviate in vari campi e il mancato rispetto degli accordi presi, ad esempio nel caso del Patto di stabilità, l’Unione europea in quanto tale non può svilupparsi in modo omogeneo e sincronico e non può neppure evolvere verso una federazione. Inoltre, il fatto che con il profilarsi di nuovi equilibri e rapporti di forza a livello mondiale le visioni geopolitiche dei due paesi chiave per il futuro dell’Europa, la Francia e la Germania, abbiano cominciato a divergere – come dimostrano da un lato le discutibili gestioni delle crisi di Airbus, di Galileo ed Euronext e, dall’altro, i tentativi tedeschi e francesi di ritagliarsi un ruolo nazionale privilegiato rispettivamente nell’Europa centro-orientale e nel Mediterraneo – prova che il tempo sta già lavorando contro e non per l’unità europea.

Cosa si dovrebbe fare per invertire la rotta è noto almeno dagli anni cinquanta, quando la scelta tra fare la grande o la piccola Europa si riduceva ancora a pensare all’Europa con o senza un solo Stato: la Gran Bretagna. Oggi la situazione è solo apparentemente più complessa, ma il nocciolo del problema si pone negli stessi termini: gli Stati fondatori i cui governi e le cui opinioni pubbliche sono storicamente a favore di un’Europa più unita e capace d’agire – a partire da Francia, Germania, Italia e Belgio – dovrebbero impegnarsi subito con un Patto federale a convocare un’Assemblea Costituente europea con il mandato di elaborare la Costituzione di uno Stato federale europeo.

In quanto tempo ciò potrebbe essere fatto è presto detto: una volta sancito il Patto sarebbero sufficienti pochi mesi per elaborare la Costituzione della nuova Europa. E nel giro di pochi altri mesi si potrebbe giungere alla ratifica da parte dei vari Stati e dare inizio alla creazione degli organi da essa previsti, ai quali spetterebbe il compito di definire, insieme a quelli dell’Unione europea, i nuovi rapporti tra le rispettive istituzioni. Entro il 2009 potrebbe quindi nascere un primo nucleo di Stato federale aperto a chi volesse entrarvi successivamente. Vale la pena osservare che mettere in campo questa prospettiva – che non può dividere ciò che è già diviso, come temono coloro ai quali sta più a cuore la difesa delle ormai deboli sovranità nazionali che fare l’Europa, ma al contrario indica la via della vera unità – contribuirebbe più d’ogni altra dichiarazione solenne, atto o protocollo, a negoziare in un’ottica più ambiziosa la struttura istituzionale dell’Unione europea dei molti: infatti per la prima volta dopo la riunificazione tedesca, l’Unione europea dovrebbe ridefinire i suoi rapporti interni a fronte della nascita di un nuovo Stato che deriva dall’unificazione e non dalla disintegrazione di Stati pre-esistenti. Questo avvierebbe nei fatti, e non solo a parole come è accaduto per anni, la fase di governo del processo di allargamento-approfondimento dell’Europa post-guerra fredda.

È molto improbabile che gli Stati e le classi politiche che dovrebbero porsi alla testa di una simile iniziativa, abbiano il coraggio e la volontà di prendere subito una simile decisione. Ciò non toglie che sarebbe loro dovere prenderla e che si tratta di una scelta che dipende solo da loro. È comunque facile prevedere sin d’ora che, finché i fondatori, o alcuni fra essi, non si assumeranno questa responsabilità, i nemici dell’Europa, cioè coloro i quali hanno ben chiaro l’obiettivo di difendere la sovranità e i poteri nazionali, avranno buon gioco a coalizzarsi, a diluire ulteriormente il processo di integrazione europea e a svuotare di significato la forma e la sostanza di tutto ciò che soltanto evoca la gestazione di un potere europeo, come hanno già fatto corrompendo le parole Unione e Costituzione.

Tutto ciò non significa affatto che sia finito il tempo per fare l’Europa, ma piuttosto che gli europei devono prendere urgentemente coscienza che, se non si va al di là del quadro esistente, non si possono più fare passi avanti sul terreno della costruzione di un potere europeo capace di decidere e agire. Nell’immediato, questa presa di coscienza non può che passare dal riconoscimento e dalla denuncia dei fuochi fatui accesi intorno al nuovo Trattato, e dal rilancio della battaglia per creare il primo nucleo di Stato federale europeo.

Publius

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