N. 25 Ottobre 2002 | Gli shock asimmetrici, il tallone d’Achille del Patto di Stabilità

Affiancare alla moneta unica una politica europea di bilancio autonoma dagli Stati presuppone la creazione di un vero e proprio Stato federale, a partire da un nucleo di Paesi in cui ciò sarà inizialmente possibile.

Negli ultimi tempi il Patto di stabilità, sottoscritto dai paesi della cosiddetta Eurolandia per garantire le condizioni di sopravvivenza della moneta europea, sta dimostrando la sua fragilità. Bisogna ricordare che il pericolo che il patto venisse messo in discussione da uno o più shocks asimmetrici era stato ampiamente previsto sia dagli euroscettici, che non volevano che l’euro venisse adottato, o comunque si auguravano che esso venisse abbandonato il più presto possibile dopo la sua creazione, sia dai federalisti, che denunciavano i pericoli che lo minacciavano e sollecitavano le decisioni necessarie per prevenirli. Ma bisogna anche dire che i primi segni di cedimento del Patto di stabilità sono comparsi con una rapidità superiore alle aspettative.

Il primo shock asimmetrico si è presentato nella forma delle inondazioni che hanno devastato la Germania e l’Austria, oltre che alcuni dei paesi candidati dell’Europa centrale. Ma il patto aveva cominciato a scricchiolare assai prima che le inondazioni si verificassero, come effetto delle divergenze tra le politiche economiche dei governi dettate dalle normali preoccupazioni anticicliche ed elettoralistiche. È noto che il Portogallo è già stato richiamato dalla Commissione per aver superato il tetto del deficit previsto, e che Germania, Francia e Italia si stanno comunque incamminando verso lo stesso esito, che hanno finora evitato anche grazie a quella che viene chiamata “contabilità creativa”.

Per questo si moltiplicano le pressioni perché il Patto di stabilità venga “interpretato” (dove il confine tra interpretazione e violazione appare estremamente labile) o modificato, alzando al 4% il tetto del deficit consentito, o prolungando di un anno il termine per il raggiungimento dell’equilibrio di bilancio, o escludendo le spese per investimenti dal calcolo del deficit, o ricorrendo ad altri artifici contabili. Si tratta per ora soltanto di segnali, che potrebbero essere considerati di scarso rilevo nella misura in cui i limiti fissati dal patto sono in larga misura arbitrari, e il loro ampliamento di un punto, o di un anno, così come l’introduzione di altri metodi per il calcolo del deficit, non hanno in sé un grande significato. Ma ciò che deve fortemente preoccupare è l’incapacità che i governi di Eurolandia stanno dimostrando di seguire politiche di bilancio convergenti, quali che esse siano (a meno che la convergenza non sia definita in termini così ampi da rendere il patto privo di contenuto).

Bisogna dire che l’esigenza della flessibilità, che viene avanzata da alcuni governi europei in difficoltà, è in astratto pienamente giustificata. Come è vero peraltro che l’equilibrio del bilancio è comunque necessario per evitare che il debito pubblico cumulato raggiunga, come ha già raggiunto in alcuni Stati dell’Unione, livelli catastrofici. Ma si tratta di un equilibrio che deve essere raggiunto attraverso la compensazione, su tempi lunghi, tra surplus di esercizi attivi e deficit di esercizi passivi. In ogni caso, un governo che voglia governare deve disporre di un ampio margine di manovra nel definire le proprie politiche e nel prendere le proprie decisioni nel breve termine. Mentre la necessità di rispettare i parametri del patto di stabilità impone ai governi europei vincoli insostenibili e li costringe ad una politica strutturalmente deflazionistica, impraticabile in periodi di congiuntura debole come l’attuale.

Peraltro, il patto di stabilità non è certo stato il risultato della deliberata volontà di frenare l’economia europea. Esso è stato l’inevitabile correlato della decisione di dotare di una moneta unica un gruppo di Stati i cui governi intendevano al tempo stesso mantenere il potere di fare una propria autonoma politica di bilancio. È evidente che, se questi non si fossero vincolati contrattualmente al rispetto di certi parametri, la conseguenza della loro libertà sarebbe stata quella, evidentemente inaccettabile, di consentire ai meno responsabili tra di essi di fare pagare agli altri, esportando inflazione, i costi, oltre che dei propri investimenti e dei propri interventi di emergenza, anche dei propri sprechi e del proprio clientelismo. Deve essere quindi molto chiaro che ogni proposta che metta in discussione il Patto di stabilità è di fatto un attentato alla moneta europea.

Ma il patto di stabilità, anche se necessario, è impossibile da rispettare nel medio termine. E la causa sia della sua indispensabilità che della sua insostenibilità risiede nella contraddizione, che esiste nei paesi di Eurolandia, tra l’esistenza di una moneta unica, che risponde ad una logica europea, e quella di dodici politiche di bilancio indipendenti, che rispondono a dodici divergenti logiche nazionali. Da ciò consegue che la sola via d’uscita dall’allarmante situazione che si sta oggi delineando in Europa è quella di affiancare alla moneta unica una sola politica europea di bilancio, dotata della necessaria flessibilità e non vincolata da alcun patto nei confronti di chicchessia. Questo risultato non può evidentemente essere raggiunto dall’Unione attuale, nella quale le dimensioni del bilancio, oltre ad essere di entità trascurabile, sono il risultato di un accordo tra i governi, che devono impegnarsi nel compito, irrealizzabile nel medio termine, di portare avanti politiche parallele ugualmente deflazioniste. Esso presuppone la creazione, anche se nel quadro ristretto in cui ciò sarà inizialmente possibile, di un vero e proprio Stato federale, nel quale un governo democratico e un Parlamento, del quale faccia parte ovviamente una Camera degli Stati, abbiano il potere di decidere, nel rispetto dell’autonomia finanziaria degli Stati membri, l’ammontare del bilancio e del deficit dell’Unione e dispongano degli strumenti per finanziarli autonomamente attraverso l’imposizione di tributi e l’emissione di prestiti. Si tratta di un passo radicale, che come tale richiede coraggio e determinazione. Ma chiunque lo rifiuti in nome del “realismo”, cioè dell’at-taccamento al proprio potere nazionale, ha il preciso dovere di dimostrare la praticabilità di un’alternativa che consenta all’Europa di impedire che l’euro entri in una fase di crisi irreversibile e l’Unione stessa si avvii verso la propria dissoluzione.

Publius

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