N. 18 Marzo 2001 | Dopo il Vertice di Nizza il tempo lavora contro l’Europa

Con la creazione della moneta europea il solo passo avanti che rimane da compiere è quello definitivo della creazione dell’Unione federale. Ma la prospettiva della rinuncia alla sovranità nazionale sta oscurando la visione e paralizzando la volontà degli uomini di governo. Imboccare la strada dell’allargamento per guadagnare tempo è una scelta pericolosa.

Il processo di integrazione europea è avanzato fino a Maastricht attraverso il conseguimento di una serie di risultati parziali come la CECA, il Mercato comune, l’elezione diretta del Parlamento europeo, il Mercato unico, la moneta europea. Questi risultati parziali, da un certo punto di vista, possono essere considerati come diversioni rispetto all’obiettivo finale della fondazione della Federazione europea. Essi infatti hanno avuto la funzione di rinviare sempre più in là nel tempo il momento nel quale si sarebbe dovuto affrontare il problema nodale della sovranità, sebbene il problema dell’unificazione federale dell’Europa fosse maturo fin dai tempi della battaglia per la CED (e per la Comunità politica che alla CED era inscindibilmente connessa). Ma, da un altro punto di vista, essi possono essere considerati come obiettivi intermedi che hanno mobilitato le energie degli uomini politici, mantenuto viva l’attenzione dei mezzi di comunicazione e alimentato le speranze dei cittadini. In questo modo essi hanno consentito all’obiettivo finale dell’unione federale dell’Europa di rimanere al di sopra della linea dell’orizzonte e hanno dato agli Europei l’impressione di essere in cammino, per quanto lentamente, verso il suo raggiungimento. Ma con la creazione della moneta europea, il 1° gennaio 1999, la marcia di avvicinamento all’obiettivo finale si è conclusa. Il solo passo avanti che rimane da compiere è quello definitivo della creazione dell’Unione federale.

È bene ricordare a questo proposito che la cosiddetta Identità europea di sicurezza e di difesa non costituisce un obiettivo intermedio ulteriore della stessa natura dei precedenti, né viene in genere visto come tale. La difesa è una prerogativa della sovranità. Essa esiste soltanto là dove esiste uno Stato, che disponga del monopolio della forza. Mentre il progetto che è sul tappeto oggi in Europa è soltanto la creazione di una forza multinazionale di reazione rapida di sessantamila uomini, il cui impiego sarà subordinato al consenso unanime dei governi dell’Unione (oltre che, implicitamente, ma non per questo in modo meno reale, a quello degli Stati Uniti). Esso sarà quindi soltanto un debole strumento al servizio di una coalizione fragile e divisa. Non a caso i governanti europei, con la velleitaria eccezione della Francia, vanno a gara nel minimizzarne il significato e nel proclamare la sua completa subordinazione alla NATO.

Ciò che oggi si deve constatare è che proprio la caduta di ogni schermo e l’impensabilità di altre tappe intermedie pare aver paradossalmente oscurato la visione e paralizzato la volontà degli uomini di governo. Ma ciò è spiegato dal fatto che i passi avanti che il processo ha compiuto finora hanno avuto la funzione di puntellare la sovranità degli Stati nazionali, che senza un quadro europeo non avrebbero potuto sopravvivere e conservare le loro istituzioni democratiche, mentre oggi i termini del problema si sono rovesciati: non si tratta più di puntellare le sovranità nazionali, ma di rinunciarvi. E questa rinuncia è incomparabilmente più difficile di tutti i trasferimenti di competenze dai governi e parlamenti nazionali alle istituzioni europee che sono stati consentiti nella fase del processo che si è conclusa.

A tutto ciò si aggiunga che l’allargamento è ormai imminente. Vero è che l’Unione, dopo la creazione della moneta europea, aveva ormai perso qualsiasi capacità di progredire seguendo le strade del passato. Ma era lecito sperare che la prospettiva dell’allargamento e della completa paralisi decisionale che ne sarebbe conseguita avrebbe costretto qualche leader a riflettere sull’urgenza di una riforma radicale delle sue istituzioni e sul problema del quadro nel quale essa potrebbe essere realizzata. E per qualche tempo è parso che il ballon d’essai lanciato da Joschka Fischer il 12 maggio dello scorso anno a Berlino potesse scatenare un dibattito sulla necessità di creare in Europa un nucleo federale che fermasse la tendenza alla disgregazione della compagine dell’Unione e rilanciasse una dinamica unitaria. Ma il messaggio di Fischer è stato, almeno per il momento, messo nel dimenticatoio. Il vertice di Nizza ha dato il via all’allargamento non solo senza migliorare, ma addirittura peggiorando, la capacità decisionale delle istituzioni europee.

Il processo europeo si trova quindi oggi in una situazione di vuoto progettuale, che non può certo essere colmato dall’illusorio proposito di aspettare che il trascorrere del tempo renda realizzabile un progetto di unificazione federale nel quadro dell’Unione attuale, o addirittura in quello dell’Unione allargata. Di fatto la presente situazione di stallo non può durare molto a lungo. Il tempo lavora contro l’Europa. I sondaggi di opinione denunciano una preoccupante diminuzione dei consensi nei confronti dell’Unione. E parallelamente si accentua l’allontanamento dei cittadini da una politica che, senza una prospettiva europea, non ha più obiettivi da indicare né valori cui ispirarsi, che è sempre più lotta per il potere e sempre meno impegno per il bene comune e che è sempre più involgarita dagli affaires e dalla corruzione. Affidarsi al beneficio del tempo e scommettere sulla prosecuzione dello statu quo sarebbe quindi irresponsabile. L’impresa dell’unificazione europea, che fino a qualche tempo fa molti consideravano come una sorta di processo naturale, destinato ad avanzare indefinitamente per forza propria, rischia concretamente di fallire. Le istituzioni democratiche sono in pericolo. Alcuni Stati sono minacciati da tendenze disgregative, altri dal ritorno del nazionalismo. L’intolleranza e la xenofobia si rafforzano dovunque.

Eppure la stragrande maggioranza della classe politica europea sembra cullarsi nell’illusoria fiducia che i problemi dell’Europa si risolveranno da soli. È urgente quindi che qualcuno si renda conto che la salvezza può venire soltanto dalla lucida presa di coscienza di due dati precisi: a) che la sola strada attraverso la quale l’Europa può uscire dall’attuale fase di stallo e sventare il pericolo concreto della fine del processo di unificazione è quella dell’avvio della creazione di uno Stato federale e b) che questa strada può oggi essere percorsa soltanto in un quadro più ristretto di quello dell’Unione, sulla base di una forte intesa franco-tedesca (per poi condurre, in un momento successivo, all’unione federale dell’intera Europa).

Si tratta di un problema i cui termini sono di una semplicità assoluta, ma che, per essere affrontato, richiede una grande lucidità e una forte volontà. Non si tratta quindi di escogitare formule equivoche per nascondere la realtà agli altri e a sé stessi e per conciliare l’illusione della creazione del nuovo con il mantenimento del vecchio. Bisogna che alcuni uomini di governo dei paesi più profondamente coinvolti nel processo di unificazione trovino il coraggio di giocare la propria carriera politica sull’arduo problema dell’unificazione federale dell’Europa. E che, all’interno delle classi politiche degli stessi paesi, cominci a prendere forma il “partito” di coloro che sono disposti a battersi per l’obiettivo prioritario della creazione di un nucleo federale.

Publius

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