N. 13 Marzo 2000 | La cooperazione rafforzata non basterà a risolvere i problemi dell’Unione allargata

L’allargamento dell’Unione è un’esigenza ineludibile, ma un’Europa a 27 o 28, con le istituzioni attuali, diverrebbe del tutto ingovernabile se non si abbandona il metodo intergovernativo per creare un nucleo federale.

L’approssimarsi della Conferenza intergovernativa decisa dal Consiglio europeo di Helsinki rimette in primo piano il problema dell’allargamento. Si tratta di un processo che in prospettiva porterà l’Unione europea a comprendere 27 o 28 membri, aventi strutture sociali ed economiche assai più eterogenee di quelle dei 15 membri attuali.

La maggior parte dei politici europei – con l’eccezione di coloro che favoriscono senza riserve l’allargamento con la precisa intenzione di trasformare l’Unione in un’area di libero scambio – guarda ai suoi sviluppi con preoccupazione. È chiaro infatti che un’Europa a 27 o 28, con le istituzioni attuali, diverrebbe del tutto ingovernabile perché un’unione di Stati che funziona con la logica del compromesso intergovernativo riesce tanto meno a trovare piattaforme di accordo quanto più numerosi sono gli Stati che ne fanno parte. L’allargamento a 27 o 28 sarebbe tanto traumatico da mettere seriamente in forse la continuazione stessa della vita dell’Unione.

D’altra parte, l’allargamento dell’Unione è un’esigenza ineludibile. La prospettiva di far parte su di un piano di parità di una grande comunità democratica ha sicuramente giocato un ruolo nell’orientare le aspettative e nel motivare i comportamenti dei cittadini dei paesi dell’Europa centro-orientale nella fase storica nella quale questi si sono liberati dal dominio dell’Unione Sovietica e in quella successiva. Se l’Unione europea si dimostrasse incapace di assumersi le responsabilità che le competono di fronte ai milioni di Europei che aspirano a farne parte, essa darebbe una gravissima prova di impotenza e di inettitudine, che comprometterebbe definitivamente il suo prestigio e la sua forza di attrazione e produrrebbe gravi conseguenze sull’equilibrio delle forze in Europa e nel mondo.

Quella del rifiuto dell’allargamento è quindi oggi una posizione insostenibile. Del resto essa si fonda sulla convinzione che congelando l’allargamento si perpetuerebbe in Europa lo status quo. Questo non è vero. L’allargamento senza riforme accelererebbe la disgregazione dell’Unione, ma il metodo intergovernativo sta ormai paralizzando anche l’Unione a 15. La verità è che in un contesto europeo e mondiale instabile come l’attuale la costruzione europea non si può semplicemente fermare. Essa può soltanto avanzare o retrocedere. E la sua retrocessione significherebbe l’ulteriore aggravamento della incapacità di decidere e del deficit democratico delle istituzioni dell’Unione ed avrebbe, come conseguenza a medio termine, la crisi delle istituzioni democratiche degli stessi Stati membri, già prefigurata dall’entrata nel governo austriaco dei Freiheitlichen.

Quasi tutti sono quindi d’accordo sulla necessità di una riforma delle istituzioni dell’Unione come condizione dell’allargamento. E molti sono anche d’accordo sul fatto che il migliore dei compromessi sui cosiddetti leftovers di Amsterdam (composizione della Commissione, estensione del voto a maggioranza e diversa ponderazionedei voti in seno al Consiglio)darebbe un apporto pressoché nullo alla soluzione del problema.

È in questo clima che riaffiora l’idea che il solo modo per non affossare l’Unione con l’allargamento sia quello di consentire ad un gruppo di paesi di avanzare senza il consenso degli altri. Ma una volta di più l’attaccamento al feticcio della sovranità nazionale fa sì che ad un’esigenza giusta venga data una risposta sbagliata. Questa risposta è quella di un miglioramento del meccanismo della cooperazione rafforzata. Si tratta di un meccanismo già previsto nel Trattato di Amsterdam, che dispone che alcuni paesi, con il consenso di tutti gli altri e subordinatamente all’osservanza di innumerevoli condizioni, possano stipulare accordi che li impegnino ad approfondire la loro collaborazione in alcuni settori. Si tratterebbe quindi di semplificare le procedure previste dal Trattato di Amsterdam per rendere più facile la loro attuazione.

Una volta di più si propone di aggirare con un escamotage giuridico un problema che può essere risolto soltanto con una decisione politica radicale. È certo vero che, per salvare l’Unione, bisogna che in essa emerga un nucleo di paesi che, senza pregiudicare i diritti degli altri, acquisisca una vera capacità decisionale. Ma l’esperienza ha ormai chiaramente dimostrato che l’ostacolo sulla strada dell’acquisizione di una vera capacità decisionale è il metodo della cooperazione intergovernativa in quanto tale. Che questa prenda la forma dell’Europa a geometria variabile o dell’Europa à la carte non cambia assolutamente nulla. Il problema è un altro. Si tratta di far emergere, all’interno dell’Unione, un gruppo di paesi disposti a superare il metodo della cooperazione intergovernativa quale che sia la sua forma, cioè di creare un vero e proprio nucleo federale (dove deve essere ben chiaro, in considerazione della tendenza di molti uomini politici a dare alle parole significati arbitrari, che un “nucleo federale” non può essere altro che uno Stato federale, costituito dai paesi membri dell’Unione più strettamente interdipendenti e oggettivamente più interessati a proseguire sulla strada dell’unificazione). Soltanto in questo modo sarebbe possibile conciliare i vantaggi dell’allargamento con la capacità di agire e la legittimità democratica di una parte dell’Unione e in prospettiva dell’Unione nel suo complesso.

Non è il caso di nascondersi la difficoltà di questo disegno. Esso presuppone una radicale trasformazione istituzionale, che provocherebbe aspre resistenze e rischi di rotture. Ma la sua realizzazione è possibile, come è stata possibile la realizzazione dell’Unione monetaria tra 11 paesi; e le istituzioni del nucleo federale potrebbero senz’altro essere rese compatibili con la permanenza dell’Unione attuale e con la conservazione dell’acquis communautaire da parte degli Stati che non vorranno o non potranno far parte del nucleo federale fin dall’inizio.

Resta il fatto che, malgrado l’obiettiva necessità di questo passo, non si intravede oggi in nessuno degli Stati dell’Unione la volontà di compierlo. Il feticcio della sovranità nazionale continua a oscurare la consapevolezza e a condizionare i comportamenti degli uomini politici. Ma le contraddizioni obiettive insite nell’allargamento esploderanno in tempi brevi e porranno una parte dei governi di fronte alla necessità ineludibile di affrontare il problema, e di scegliere tra la soluzione radicale della creazione del nucleo federale e la fine ingloriosa del processo di unificazione europea.

Publius

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