N. 68 Ottobre 2016 | 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma: uno spartiacque per il futuro dell’Europa

In un frangente che richiederebbe l’azione e la capacità di iniziativa, vediamo un Consiglio che rinuncia alla progettazione politica e dei governi che affannosamente cercano impossibili soluzioni nazionali alle varie crisi. Per questo sarà importante dimostrare a Roma il 25 marzo che esiste ancora un largo consenso per un’Europa federale.

Il messaggio che il Consiglio europeo ed i governi nazionali stanno inviando in questi mesi ai cittadini europei è devastante. In un frangente che richiederebbe più che mai l’azione e la capacità di iniziativa, vediamo un Consiglio che rinuncia alla progettazione politica scegliendo “il frenetico stare fermi”, come denunciava già questa estate Jürgen Habermas, e dei governi che affannosamente cercano impossibili soluzioni nazionali alle varie crisi. Né questo, né quello è governare, e per questo la sfiducia nelle istituzioni e nel futuro aumenta. E, con essa, aumentano gli egoismi nella società.

L’Europa – e l’Occidente – stanno attraversando una crisi di valori che ricorda drammaticamente quanto è accaduto nel nostro continente nei decenni a cavallo delle due guerre mondiali. La crescita dell’interdipendenza mondiale, affrontata senza capacità politica di leadership e di istituzioni in grado di garantire la cooperazione, trasforma la convivenza internazionale in una competizione aggressiva dalle conseguenze e dai risvolti incontrollabili.

L’Europa è il crocevia  di questo disordine mondiale, in cui i paesi occidentali, che detenevano la leadership economica, insieme a quella politica e militare statunitense, si trovano ora a vivere come una minaccia il confronto con l’ascesa, a sua volta disordinata e piena di contraddizioni, di quei paesi e continenti che una volta erano considerati partner svantaggiati. Nonostante sia l’area commerciale più sviluppata del mondo, l’Unione europea continua a rappresentare, ancora 25 anni dopo il crollo dell’URSS e la fine dell’asse privilegiato con gli Stati Uniti, un enorme vuoto sulla scena mondiale, sia per quanto riguarda gli equilibri di potere, sia sul piano dei valori e della cultura politica che incarna, non essendosi mostrata capace né di sconfiggere definitivamente gli idola nazionalisti, né di affermare una nuova concezione di comunità politica federale post-nazionale.

Eppure il mondo in questa fase avrebbe un disperato bisogno di una leadership politica e culturale europea capace di esprimere un’ideologia di ricerca della stabilità e della cooperazione. Ed avrebbe ancor più bisogno di veder affermati e trasformati in istituzioni solide i punti di riferimento morali, storici e politici che si trovano esclusivamente nelle ragioni e nelle radici del processo di unificazione europea – punti di riferimento che solo attraverso il successo di quest’ultimo si possono affermare nel mondo.

Questo, a ben vedere, è stato il senso profondo dell’omaggio che Renzi ha voluto tributare quest’estate a Ventotene ad Altiero Spinelli e al suo Manifesto per un’Europa libera e unita, insieme a Merkel e Hollande. Perché in questo tornante storico, solo un’Europa capace di esprimere la volontà politica di portare a compimento l’unità politica, di superare egoismi e chiusure, di dar vita a solide istituzioni sovranazionali capaci di agire al posto degli Stati nell’ambito delle loro competenze e di rispondere direttamente ai cittadini europei, e non più solo ai 27 popoli nazionali, può invertire il pericoloso trend in atto a livello globale. Senza questa svolta, che solo gli europei possono imporre pacificamente con il loro esempio, la democrazia liberale e i valori di uguaglianza e di giustizia sociale, che sono il tratto peculiare e l’orgoglio dell’Occidente, sono destinati ad essere travolti. I segnali che giungono dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti d’America lo confermano in modo preoccupante.

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La cause profonde della crisi della democrazia occidentale che tutti gli osservatori rilevano – crisi che si intreccia con il crescente rifiuto della globalizzazione – sono in ultima istanza politiche e culturali insieme. Politiche, nella misura in cui gli Stati occidentali, dagli USA a quelli europei, non sono stati capaci di gestire in modo lungimirante la globalizzazione, e hanno accumulato contraddizioni e debolezze nel sistema economico e sociale che la crisi finanziaria ed economica ha brutalmente portato in primo piano; e culturali, perché al tempo stesso è mancato lo sviluppo di un adeguato pensiero politico che permettesse di capire  i cambiamenti in atto e le sfide correlate, indicando la direzione verso cui cercare di far evolvere le istituzioni, a tutti i livelli.

L’obiettivo avrebbe dovuto essere quello di garantire la pace sociale e la solidarietà all’interno delle diverse comunità politiche e verso l’esterno, tra paesi e tra popoli; quello di far crescere la consapevolezza e il senso di responsabilità di ciascuno riguardo all’interesse generale, sviluppando il coinvolgimento costruttivo dei cittadini nella vita pubblica; e, insieme, quello di governare gli effetti sia dell’interdipendenza globale, sia dei scambiamenti tecnologici all’interno di diversi contesti territoriali e sociali. Ma questo obiettivo non è stato raggiunto perché si è tentato di perseguirlo utilizzando le vecchie e tradizionali categorie, ormai inadeguate, della contrapposizione destra/sinistra, arrivando persino a stravolgerne i riferimenti. Solo ora inizia a farsi strada la comprensione che la nuova vera linea di divisione nel XXI secolo corre invece tra quello che alcuni osservatori definiscono il nazionalismo razzista e quello che molti chiamano il “liberalismo cosmopolita”, ma il cui riferimento corretto è quello del federalismo così come si è caratterizzato e si è andato sviluppando nell’esperienza del processo di unificazione europea: dal Manifesto di Ventotene, all’elezione europea, al Progetto Spinelli, alla moneta unica, fino alle proposte sviluppate in questi ultimi anni dai Rapporti della Commissione europea e dai vari Presidenti delle istituzioni dell’Unione e ai Rapporti attualmente in via di finalizzazione all’interno del Parlamento europeo per il rafforzamento dell’Unione europea e per la sua evoluzione istituzionale in una vera Federazione.

La politica, nel senso alto e nobile del termine, è oggi di fronte ad un bivio. Sulla capacità del Parlamento europeo di portare avanti con tenacia e coraggio questi Rapporti, sulla capacità e la lungimiranza dei governi di avviare l’apertura di una fase che deve essere costituente, si deciderà non solo il futuro dell’Europa, ma lo stesso destino del mondo. Se, viceversa, in primis i capi di Stato e di governo e i parlamenti, continueranno ad inseguire un’opinione pubblica confusa invece di guidarla verso il bene collettivo, usando a tale scopo il potere che è stato loro delegato, il populismo e la xenofobia continueranno a crescere e la democrazia verrà travolta.

I tempi stringono, e le verifiche si potranno fare a breve. Se l’occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, il 25 marzo 2017, deve essere – e non può che essere – uno spartiacque per l’Europa, non basterà in quell’occasione dare il via alle pur necessarie politiche concrete che vogliono dare risposte in tempi brevi ai problemi dei cittadini, ma occorrerà aprire anche il cantiere della riforma delle istituzioni, cantiere di cui le proposte che sono state sviluppate all’interno del Parlamento europeo costituiscono l’indispensabile base di partenza.

Per questo sarà importante essere a Roma in quella data: per dimostrare che esiste ancora un largo consenso sulla necessità di fare l’Europa e per rivendicare il salto di qualità verso un’Europa federale.

L’appuntamento, per tutti, è a Roma il 25 marzo 2017.

Publius

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