N. 5 Ottobre 1998 | La cecità della classe politica europea di fronte alla crisi finanziaria

L’UE potrebbe essere decisiva nell’orientare la reazione allo strapotere della finanza verso l’instaurazione di una leadership forte e responsabile a livello mondiale invece che verso il protezionismo. Ma è non certo l’Europa di oggi che può svolgere questo ruolo.

La crisi finanziaria iniziata alcuni mesi fa nei mercati del Sud-Est asiatico rischia di assumere dimensioni mondiali. Essa ha investito la Russia e l’America latina e messo a nudo la totale inerzia e impotenza del Giappone. Essa sta seminando la paura nei mercati finanziari americani ed europei. Molti osservatori incominciano a temere seriamente che essa si estenda dal settore finanziario all’economia reale dando il via ad una fase di recessione mondiale di imprevedibile gravità.

Non è certo questa la sede nella quale si possono esaminare le cause immediate della crisi. Quella che invece si deve sottolineare è la sua causa strutturale, che è la totale incapacità della politica di controllare gli enormi capitali a breve termine che si spostano da una parte all’altra del pianeta in una situazione di totale assenza di regole. Ciò che accade è anzi il contrario: è la politica che di fatto viene profondamente condizionata dai mercati finanziari.

È impossibile prevedere quanto durerà la crisi in corso. Ma una cosa dovrebbe essere evidente per tutti: che è impensabile che si perpetui indefinitamente una situazione nella quale il benessere di milioni di uomini e la stessa sorte dei governi di molti paesi sono nelle mani dei fondi di investimento e della speculazione internazionale e che quindi, senza una radicale inversione di tendenza, crisi della stessa natura sono destinate a ripetersi. Peraltro una inversione di tendenza ci sarà, perché un mercato esiste soltanto là dove esiste un potere politico in grado di regolarlo, e dove questo manca non vigono leggi del mercato, ma regnano il caos e l’anarchia.

Il problema riguarda il modo in cui avverrà l’inversione di tendenza, e in particolare se essa avverrà attraverso un ritorno al controllo dei capitali a livello nazionale, con un conseguente soprassalto protezionistico, o a livello internazionale attraverso l’instaurazione di una leadership forte e responsabile: una leadership che consenta di realizzare per un periodo sufficientemente lungo condizioni generali di equilibrio economico e di stabilità politica tali da scoraggiare la speculazione e insieme da favorire, nei paesi che dalla crisi sono stati colpiti più gravemente, una graduale evoluzione delle istituzioni e dei comportamenti che renda meno fragili le loro economie.

Si tratta di un compito di enormi dimensioni, che è insensato pensare di riservare ai funzionari del Fondo monetario internazionale. D’altra parte la crisi ha mostrato con chiarezza che gli Stati Uniti non sono in grado di assumerlo da soli. Essi sono provati politicamente, economicamente e moralmente da mezzo secolo di esercizio di un’egemonia che è diventata impossibile da gestire dopo il crollo dell’impero sovietico. Essi hanno bisogno della collaborazione di un partner forte e influente, che senta l’urgenza della responsabilità di destinare una parte delle proprie risorse al compito di impedire che il mondo cada in preda al disordine politico ed economico.

Questo partner non può essere che l’Europa. Ma non certo l’Europa di oggi, che brilla per la sua assenza e la sua irresponsabilità sulla scena internazionale. E si deve notare anche che, se l’Unione monetaria è finora rimasta al riparo dalle conseguenze più gravi della crisi, niente è in grado di garantire che un’Europa governata soltanto da una banca centrale potrà rimanere a lungo un’isola felice al riparo dalle tempeste che si stanno abbattendo sul resto del mondo.

Ma l’Unione europea non potrà mai avere un grande disegno e assumersi responsabilità mondiali (né garantire la propria stessa sopravvivenza) fino a quando la principale preoccupazione di ciascuno dei governi che ne fanno parte sarà quella di garantire gli interessi corporativi che esso rappresenta contro i comportamenti dei governi degli altri paesi membri. Il problema è quello di dare all’Europa un governo che ciascun cittadino, a qualunque Stato membro appartenga, senta come il proprio governo. Il problema è cioè quello di trasformare l’Unione europea in uno Stato federale democratico, forte e capace di agire.

Di fronte all’evidenza di questa realtà, la classe politica europea sta dando prova di un’impressionante cecità. Non resta che augurarsi che le nubi che si stanno addensando sull’economia e, al seguito dell’economia, sulla pace mondiale, diano una scossa alle coscienze e facciano comprendere a coloro che hanno il potere di decidere l’indilazionabile urgenza di questo compito decisivo.

Publius

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