N. 22 Febbraio 2002 | Con la nuova politica europea di Berlusconi l’euroscetticismo penetra nel cuore dell’Europa

Con le ultime prese di posizione del suo governo, l’Italia rischia di isolarsi in Europa e di minare le prospettive di avanzamento del processo di integrazione che non possono più far affidamento sulla coesione dei sei Paesi fondatori.

La linea seguita negli ultimi mesi dalla politica europea del governo italiano dovrebbe suscitare preoccupazione e allarme in tutti gli europei che abbiano un minimo di senso di responsabilità. L’Italia ha sempre fatto parte del gruppo di paesi dalla cui collaborazione sono nate tutte le iniziative che hanno fatto avanzare il processo di integrazione europea, fino a Maastricht. La conseguenza della nuova linea del governo italiano non sarà quindi soltanto l’emarginazione dell’Italia da un’Europa che continua nel cammino della sua unificazione. Se così fosse, il cambiamento di rotta del governo italiano sarebbe un incidente di percorso spiacevole, ma transitorio. Il fatto invece è che esso significa che l’euroscetticismo – che gli euroscettici hanno ribattezzato “eurorealismo” – è penetrato nel cuore dell’Europa, e che il gruppo di paesi i cui governi hanno finora dimostrato la capacità di far avanzare il processo e hanno avuto la consapevolezza – anche se confusa – della necessità vitale di fare dell’Europa un polo autonomo dell’equilibrio mondiale si è gravemente indebolito; mentre si è corrispondentemente rafforzato il fronte di quelli che puntano a trasformare l’Unione in un’area di libero scambio, priva di autonomia e incapace di governare democraticamente la propria economia e la propria moneta. Il pericolo – concreto e reale – che questa evoluzione fa apparire all’orizzonte è quello della conclusione ingloriosa di quel processo di unificazione che ha consentito all’Europa di godere di cinquant’anni di pace e di prosperità.

L’Italia è un paese politicamente debole, nel quale la società è frammentata e il costume democratico è meno radicato che altrove. Il suo elettorato è quindi più esposto di quello di altri paesi al richiamo del populismo, quando le circostanze ne favoriscono la nascita. Ma queste considerazioni possono spiegare soltanto il fatto che certi fenomeni degenerativi si siano manifestati in Italia prima che altrove, e in forme particolarmente sgradevoli. In realtà l’involuzione della situazione politica italiana è soltanto l’aspetto più vistoso di una generale involuzione della situazione politica europea, le cui radici, a loro volta, stanno nel fatto che in cinquant’anni di integrazione la politica in Europa è sempre rimasta confinata nel quadro nazionale e che essa non si è mai posta concretamente il problema della creazione di un governo democratico europeo.

Il processo di integrazione europea ha potuto continuare fino a Maastricht grazie ad un elevato grado di collaborazione tra Stati indipendenti in vista del perseguimento di grandi obiettivi come l’elezione diretta del Parlamento europeo, il mercato unico e la moneta europea, in un quadro di stabilità garantito dalla Guerra fredda e dalla conseguente convergenza di interessi tra l’Europa e la potenza egemone americana. I suoi protagonisti sono stati uomini di governo di grande statura, nei quali era ancora viva la memoria della catastrofe della Seconda guerra mondiale. Ma, dopo il raggiungimento del traguardo della moneta unica, e con l’affievolirsi del ricordo della guerra, la disponibilità a collaborare tra paesi che i successivi allargamenti hanno reso sempre più numerosi ed eterogenei si è andata progressivamente attenuando, mentre i rapporti tra Europa e Stati Uniti sono divenuti tendenzialmente conflittuali. Il collante che finora ha mantenuto relativamente unita la compagine della Comunità prima e dell’Unione poi ha perso la sua forza. I Consigli Europei sono diventati il teatro di mercanteggiamenti sempre più indecorosi, e non certo solo per colpa del governo italiano.

È giusto quindi che alcuni governi dell’Unione manifestino preoccupazione per ciò che sta accadendo in Italia. Ma essi non devono cadere nell’errore di pensare che la compattezza dell’Unione si possa salvare con dichiarazioni di condanna. L’Europa deve avanzare per non retrocedere. E per avanzare bisogna che i governi più consapevoli tra quelli degli Stati membri dell’Unione si rendano conto della necessità e dell’urgenza di un drastico mutamento di rotta e presentino ai cittadini un grande disegno, capace di suscitare speranze e di mobilitare energie.

Si deve trattare di un disegno concreto e credibile, e non certo della semplice espressione di un auspicio. È quindi evidente che esso non potrà nascere nel quadro dei Quindici di oggi, né dei Venticinque di domani. Un radicale cambiamento di rotta potrà realizzarsi, come del resto è accaduto in tutto il corso del processo di unificazione, soltanto grazie all’iniziativa di un piccolo gruppo di paesi resi omogenei da una lunga storia di integrazione. Questo gruppo poteva fino a qualche tempo fa identificarsi con i sei paesi fondatori della CECA. Oggi è legittimo esprimere il timore che all’attuale governo italiano manchino la visione, lo slancio ideale e la credibilità internazionale necessari per giocare un ruolo attivo nel processo. Se mai un gruppo europeo di iniziativa nascerà, è quindi verosimile che esso nasca, salvo improbabili resipiscenze, senza l’Italia, anche se è facile prevedere che in questo caso l’Italia, data la stretta interdipendenza tra la sua economia e quella dei membri del gruppo di iniziativa, sarà tra i primi Stati dell’Unione a far proprio, a cose fatte, il loro disegno.

Ma questo disegno, oltre che concreto e credibile, dovrà essere radicale. Un’iniziativa a sei (o più probabilmente a cinque) non deve aver nulla a che fare con la creazione di un direttorio che riproduca in un quadro più ristretto i vizi e le insufficienze dell’Unione attuale. Un direttorio non farebbe che esasperare le tensioni tra i governi che ne faranno parte e quelli che ne saranno esclusi e non impedirebbe che altre tensioni nascessero tra i suoi membri. D’altro lato, il processo di unificazione europea non potrà essere rilanciato con formule ambigue, come quella della “federazione di Stati nazionali”, con cui ci si illude di mettere d’accordo coloro che vogliono l’Europa con coloro che non la vogliono; né con espedienti istituzionali che lasciano tutto come prima, come quello delle “cooperazioni rafforzate”. La verità è che ciò che i governi dei paesi che si dovessero costituire in gruppo di iniziativa dovranno decidere è lo spostamento del quadro primario della lotta politica dalle nazioni all’Europa attraverso la cessione della loro sovranità ad un primo embrione di Stato federale, destinato a comprendere tutti i paesi che ne accetteranno le regole costituzionali. Si tratta di un compito di grande difficoltà, che presuppone l’esistenza di circostanze eccezionali, la comparsa di uno o più leader dotati di coraggio e di visione e la paziente azione di preparazione di un’avanguardia federalista rigorosa e tenace. Ma il problema della sovranità deve essere posto con chiarezza. La grande difficoltà della scelta storica dalla quale dipende la salvezza dell’Europa deve essere affrontata, non aggirata.

Publius

Continua a leggere