N. 36 Giugno 2005 | Gli insegnamenti che ci vengono dalla mancata ratifica del Trattato costituzionale

Il dibattito di questi mesi ha avuto il merito di sollevare il velo di ipocrisia con il quale i governi e le istituzioni europee hanno cercano di nascondere il malessere crescente dell’opinione pubblica verso un'Unione Europea che non sa affrontare i nodi che le impediscono di rispondere alle aspettative dei cittadini.

La mancata ratifica del Trattato costituzionale da parte della Francia, così netta ed inequivocabile, cui si aggiunge il No dell’Olanda, segna la fine di questo testo così come è stato originariamente concepito e apre una stagione di incertezza e di trattative concitate durante la quale i governi tenteranno di superare lo stallo. La tentazione di minimizzare l’accaduto e di cercare di riassorbire la sconfitta senza grandi rivolgimenti sarà forte. Occorre dire infatti che l’Europa non sta correndo un grave pericolo di vuoto istituzionale, né sta vivendo una crisi capace di rimettere in discussione il percorso acquisito: il Trattato era una semplice razionalizzazione di quelli già esistenti, e le innovazioni tecniche previste ai fini della governance a venticinque o più Paesi potranno facilmente essere riprese sotto varie forme, come si era già iniziato a discutere nel corso della campagna referendaria francese quando era diventato forte il rischio di un No. Ma ignorare il segnale d’allarme lanciato dai cittadini francesi e olandesi, anche se con stati d’animo e attese diversi e contradditori, e non affrontare i nodi europei evidenziati dai referendum, sarebbe irresponsabile da parte della classe politica. Il futuro dell’Europa è in gioco in questa fase, e non cogliere l’occasione per rilanciare il processo su basi nuove e più credibili può portare ad una crisi irreversibile.

Il dibattito di questi mesi ha avuto il merito di sollevare il velo di ipocrisia con il quale i governi e le stesse istituzioni europee tendono a nascondere il reale andamento del processo europeo, affermando a parole di voler rafforzare la coesione dell’Unione e di volerla avviare verso forme di integrazione politica, ma senza in realtà creare gli strumenti per rendere possibile questa integrazione e facendosi trascinare, nei fatti, dalla logica della diluizione insita nel processo di allargamento; il quale di per sé, senza precisi contrappesi politici, allontana la prospettiva originaria dell’obiettivo federale e condanna l’Europa all’impotenza e alla decadenza. Il malessere crescente dell’opinione pubblica è proprio dovuto alla percezione, in un momento di profondi cambiamenti, sia della debolezza dei propri Stati che di quella dell’Unione europea e al fatto che si comincia a perdere fiducia nella possibilità di un rilancio dell’Europa. Ed effettivamente questo rilancio nell’Unione allargata è più difficile, perché non può più essere perseguito né attrave rso il metodo comunitari o, né attraverso quello intergovernativo, così come sono stati usati fino ad ora.

Il cammino verso una maggiore integrazione sul terreno economico e sociale, cioè il terreno sul quale più acceso è stato il confronto in Francia, è infatti ormai sbarrato da un lato dalla impossibilità di armonizzare venticinque economie fortemente eterogenee semplicemente concordando standard comuni e, dall’altro, dall’impossibilità di un rilancio a livello continentale dell’economia in mancanza di risorse proprie adeguate dell’Unione e di un governo democratico responsabile di fronte ai cittadini. D’altro canto questa assenza di una politica economica europea mina le potenzialità dell’euro e ne mette a rischio la stessa sopravvivenza, così come la mancanza di una politica estera e di sicurezza condanna gli europei a subire gli equilibri di potere imposti dalle vecchie e nuove potenze mondiali.

Il fatto è che questa impasse dell’Unione suscita reazioni molto differenti nei vari Paesi. Se in gran parte dei nuovi membri e in quelli tradizionalmente ostili al processo di unificazione la richiesta è di sottoporre le istituzioni e le decisioni europee ad un maggiore controllo nazionale, nei Paesi che sin dal secondo dopoguerra hanno legato il proprio destino politico all’integrazione europea la domanda è invece di più Europa: di un’Europa capace di agire, di rispondere ai cambiamenti in atto nel mondo, di difendere il modello sociale europeo, e di un’Europa democratica, il cui governo renda conto direttamente ai cittadini delle proprie scelte e del proprio operato. È questo il significato profondo, soprattutto in Francia, del No alla “costituzione” europea, ed è da qui che i governi di questi Paesi devono ripartire, se non vogliono assistere al fallimento del progetto europeo.

Questo comporta risposte precise e concrete. La constatazione da cui partire, e che non a caso è stata evocata nel corso del dibattito francese, è che, perché la costruzione dell’Europa avanzi, bisogna dare sostanza a quell’Europa politica a più velocità, o a cerchi concentrici, con un nucleo duro al centro, di cui soprattutto in Francia e Germania si è parlato negli ultimi quindici anni ma senza andare al di là di proposte di forme di cooperazione fra Stati, che sono ormai assolutamente insufficienti. Nella misura in cui sono in questione la politica economica e fiscale e la politica estera e di sicurezza, infatti, se non si vuole continuare ad essere paralizzati dagli interessi nazionali, divergenti per definizione, non esistono alternative: bisogna attribuire tali competenze ad istituzioni europee che siano dotate del potere democratico, cioè sottoposto al controllo dei cittadini, di decidere e di mettere in atto le proprie decisioni sulla base di strumenti propri. Ma ciò può avvenire solo attraverso una trasformazione radicale dei rapporti tra gli Stati, e più precisamente attraverso un trasferimento di sovranità ad un potere federale di natura statuale senza il quale tutti gli sforzi di ulteriore approfondimento dell’integrazione sono destinati a fallire.

Questa è la risposta alle gravi inquietudini manifestate dalle opinioni pubbliche dei Paesi più europeisti. Solo con la nascita di un primo nucleo dello Stato federale europeo, all’interno della più ampia confederazione rappresentata dall’Unione allargata, la situazione attuale di impasse potrà essere invertita e l’Europa potrà riprendere in mano il proprio destino.

Se, come viene invocato sempre più frequentemente, la responsabilità del rilancio del progetto europeo grava sui Paesi fondatori, è in questa prospettiva che la classe politica e la società civile dei Sei devono iniziare a pensare e ad agire sin da ora. Un’iniziativa dei Sei, o di alcuni tra essi, e in primo luogo di Francia e Germania, può e deve indirizzarsi verso la costruzione dello Stato federale europeo.

Publius

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