N. 31 Gennaio 2004 | Il fallimento della conferenza intergovernativa

A Bruxelles i governi non sono stati in grado di approvare neppure un trattato che apporta solo modifiche estetiche alle istituzioni comunitarie. Per ridar vita al processo di integrazione europea è ormai chiaro che bisogna ripartire da un nucleo ristretto di Stati dal quale, purtroppo, è molto difficile che faccia parte l’Italia.

La conferenza intergovernativa di Bruxelles è finita, come non poteva non finire, con un clamoroso fallimento. Ma si deve sottolineare che il suo esito sarebbe stato altrettanto negativo se essa si fosse conclusa con l’approvazione della “Costituzione” elaborata dalla Convenzione. Questa è infatti un documento che non contiene il minimo elemento di novità che non sia puramente formale e che il più euroscettico dei governi avrebbe potuto approvare, nella certezza che la propria sovranità non sarebbe stata per nulla intaccata. Ciò che era in gioco nelle stucchevoli discussioni sulla “Costituzione” europea che hanno preceduto il Vertice di Bruxelles era la natura delle regole di funzionamento di una confederazione di Stati sovrani. Soltanto l’incomprensione della vera natura delle posizioni espresse nella “Costituzione” aveva indotto qualcuno ad affermare che nella Convenzione si erano opposte posizioni federaliste e posizioni antifederaliste. Di fatto quelli che si sono contrapposti nella Convenzione e, con ancor maggiore chiarezza, nella Conferenza intergovernativa, sono stati soltanto i piccoli interessi di potere delle varie istituzioni dell’Unione e dei diversi Stati che ne fanno parte.

Resta il fatto che il modo in cui i fatti si sono svolti e la brutalità con la quale Spagna e Polonia hanno difeso i loro interessi nazionali hanno sottolineato le dimensioni del fallimento e messo così in evidenza la gravità delle minacce che gravano sul futuro del processo di unificazione europea. Con questo non si vuol certo dire che dopo Bruxelles taceranno le voci rassicuranti di coloro che già prima dicevano che l’Europa è cresciuta attraverso le crisi, che bisogna lasciare alla coscienza europea di tutti gli Stati dell’Unione il tempo di maturare, che occorre riproporre instancabilmente all’approvazione degli Stati il testo della “Costituzione”, eventualmente migliorandolo grazie al lavoro di altre Convenzioni, ecc. Non c’è limite alla capacità degli uomini di illudere sé stessi quando l’automistificazione serve per giustificare grandi o piccole posizioni di potere, o semplicemente copre il desiderio di evitare lacerazioni che turberebbero gli equilibri esistenti. Ma queste voci diventeranno sempre più flebili e si ridurranno finalmente, di fronte alla dura realtà dei fatti, alla meccanica recitazione di vuote giaculatorie, alle quali nessuno darà ascolto.

Ciò che rimane dell’Unione dopo Bruxelles è un “triangolo istituzionale” ormai ridotto alla completa paralisi dal quadro a venticinque, un euro indebolito dalle continue e aperte violazioni del Patto di stabilità e dall’allontanarsi della prospettiva di un governo europeo dell’economia e un acquis communautaire la cui importanza viene quotidianamente erosa da governi che imputano all’Europa la responsabilità di tutte le decisioni impopolari che essi devono prendere per poter continuare a gestire il potere nazionale.

La verità è che l’Unione europea è ormai in coma. E’ urgente che coloro che hanno a cuore le sorti dell’Europa – uomini di governo, politici, cittadini – si rendano conto che il problema del rilancio della sua unificazione deve diventare la prima delle loro priorità. Dopo Bruxelles, si è largamente diffusa la consapevolezza del fatto che, per ridar vita al processo, è necessario ripartire da un nucleo ristretto di Stati, che si formi attorno all’asse franco-tedesco e che sia composto dai paesi fondatori, che condividono una pluridecennale esperienza di integrazione. Bisogna purtroppo prendere atto del fatto che, dopo le dichiarazione rese da Berlusconi a Bruxelles, da questo gruppo dovrà, a meno di spettacolari voltafaccia, essere inizialmente esclusa l’Italia. Ma insieme non si deve dimenticare che l’esclusione dell’Italia non potrà essere che di brevissima durata, perché l’Italia ha avuto un ruolo essenziale in tutte le fasi del processo di unificazione europea, è legata agli altri paesi fondatori da un forte grado di interdipendenza e possiede una larga parte della classe politica – di destra e di sinistra – e un’opinione pubblica decisamente orientate in senso europeo.

Ma i paesi fondatori non dovranno limitarsi a spronare gli altri, né a lanciare iniziative che l’intervento degli altri possa snaturare prima che esse si siano realizzate. Essi non dovranno riprendere gli schemi istituzionali dell’Unione. Il nucleo non dovrà basarsi sul principio della cooperazione – rafforzata o non – tra Stati sovrani. Dovrà essere chiaro che l’amicizia franco-tedesca sarà importante come base per la fondazione del nucleo ma, se rimarrà ciò che è oggi, essa si sgretolerà al primo ostacolo perché non è fondata sulla reciproca rinuncia alla sovranità. Il fatto è che il processo ripartirà soltanto se i Paesi fondatori renderanno irreversibile la loro unità costituendo, attraverso la stipula di un Patto federale, un vero e proprio Stato federale europeo.

Se si vuole che questo obiettivo venga raggiunto, i paesi fondatori non dovranno agire nel quadro dell’Unione, cioè con il consenso degli altri. Va da sé che il nucleo federale chiederà di far parte, come nuovo soggetto statale, delle istituzioni europee esistenti. Ma Bruxelles ha mostrato con chiarezza che cosa ci si può attendere dai paesi che sono entrati nell’Unione dopo la fondazione della CECA. Certo anch’essi entreranno nella Federazione europea, se lo vorranno, ma dopo che questa sarà stata creata, perché se si vorrà coinvolgerli nel processo della sua creazione, essi la renderanno impossibile. Non bisogna stancarsi di ripetere che, fino a che si rimane nel quadro a venticinque, non si realizzerà nessun passo decisivo verso l’unificazione politica dell’Europa. Il quadro a venticinque è il quadro della divisione e della disgregazione e qualunque insistenza sulla necessità di mantenerlo inalterato è un attentato all’unità. Per questo il problema non è quello di ricucire strappi né quello di evitarne di nuovi. L’unità europea riparte dai Paesi fondatori o muore. E’ quindi essenziale che non ci si spaventi di fronte alla prospettiva della rottura. La realtà è che per fare l’Europa la rottura è necessaria: ma si tratta di una rottura che è la premessa necessaria dell’unità.

Il passo è difficile. Ma non bisogna dimenticare che quello che attende l’Europa se questo passo non sarà compiuto, e che qualcuno ha già cominciato a prospettare, è un futuro di decadenza. Esso sarà quello di un’area unita soltanto dalla comune soggezione militare agli Stati Uniti e dalla tenue ed effimera comunanza di interessi data dalla appartenenza ad una grande zona di libero scambio. Ma, per il resto, l’Europa si frammenterà in una serie di sfere di interdipendenza in conflitto tra loro e orientate in direzioni diverse e incompatibili nei confronti del resto del mondo. Nascerà probabilmente un’area nordica, della quale faranno parte i paesi scandinavi e baltici. La Germania, una volta sciolto il legame privilegiato che la lega alla Francia, stabilirà una sorta di sub-imperialismo economico nei confronti dei paesi dell’Europa centro-orientale; la Gran Bretagna consoliderà la sua posizione di aiutante di campo degli Stati Uniti nella loro funzione di gendarme di un precario ordine mondiale e rimarrà in Europa con lo scopo preminente, che peraltro ha sempre perseguito, di soffocare qualsiasi velleità di unione politica; la Francia resterà isolata e cercherà di compensare il suo isolamento con una politica fondata sulla retorica ispirata ai ricordi del suo passato di grande potenza; l’Italia favorirà l’ingresso nell’Unione europea dei Paesi balcanici e tenterà di stabilire rapporti privilegiati almeno con alcuni di essi; la Spagna si sforzerà di rafforzare la sua influenza storica sui paesi ispano-americani. Si diffonderà ulteriormente il nazionalismo. Si tratterà beninteso di un nazionalismo meschino e impotente perché ormai superato dalla storia, ma tuttavia capace di rendere irreversibile il processo di approfondimento delle divisioni tra gli Stati europei. Rinascerà in Europa, anche se ridimensionata dalla comune dipendenza dagli Stati Uniti, una sorta di provinciale politica di potenza. Finirà il processo di unificazione europea e l’Europa uscirà dalla storia lasciando il passo ad altri protagonisti dell’equilibrio mondiale e ad altri centri di sviluppo della civiltà.

Questi sono i termini della scelta di fronte alla quale si trovano gli eredi di Schuman, Adenauer, De Gasperi e Spaak.

Publius

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