N. 42 Dicembre 2006 | Non basta emendare il Trattato di Nizza per far fronte alle sfide del nuovo ordine mondiale

Salvaguardare l'esistente e rinviare sine die qualsiasi riforma in senso federale delle istituzioni europee condanna l'Europa all'inazione: per garantire il futuro dell’Europa serve un patto federale a partire dal gruppo dei paesi fondatori.

“Il problema (…) al centro dell’integrazione europea, (è) lo scisma concettuale che c’è tra gli Stati membri. Delle tendenze contraddittorie e inconciliabili sulle visioni del futuro dell’Europa sono ormai in rotta di collisione. Mentre per alcuni l’unica strategia da seguire per salvare il continente è quella di costruire gli “Stati Uniti d’Europa”, altri preferiscono sottolineare il fatto di aver aderito semplicemente ad un mercato comune. Questo profondo disaccordo sulla direzione che deve prendere l’Unione europea minaccia di porre fine al processo di integrazione europea, benché esso sia stato finora ricco di successi. Il consenso di fondo sulla politica di integrazione europea è un fatto del passato. Le discussioni sono formalmente sui testi dei trattati, ma il disaccordo profondo riguarda le visioni contrapposte sul destino dell’Europa. Se risulterà impossibile raggiungere qualche accordo sul futuro assetto politico del continente, l’Europa dei venticinque, e presto di ancor più Stati membri rischia di avviarsi verso il declino e la disgregazione. Questo problema non può essere risolto finché non sarà stato apertamente dibattuto”.

Questa è la premessa da cui parte il rapporto Europe’s Strategic Responses, elaborato dal Centro studi della Fondazione Bertelsmann; esso costituisce la fonte di ispirazione delle linee guida del programma della presidenza tedesca nel prossimo semestre ed è stato presentato al forum internazionale organizzato nel settembre scorso a Berlino presso Ministero degli esteri tedesco, cui hanno partecipato esponenti dei vari governi dell’Unione. Non è quindi una preoccupazione solo dei federalisti europei quella delle contraddizioni che sta vivendo la costruzione dell’Europa. Anche i leader politici e gli esponenti di governo più consapevoli conoscono bene questa verità. Ma le risposte che il rapporto Bertelsmann e il programma della presidenza tedesca forniscono sembrano poi non tenerne conto, e le proposte avanzate si collocano nella tradizionale linea di sviluppo graduale del processo europeo per sostenere la ratifica di un nuovo Trattato, la promozione di ulteriori integrazioni differenziate e in particolare di una difesa europea come se si volesse cercare una possibile mediazione fra visioni prima definite “contraddittorie e inconciliabili”.

Per i federalisti europei e in generale per tutti coloro i quali sostengono la necessità e l’urgenza di creare gli Stati Uniti d’Europa, è un dovere intervenire in questo dibattito ed esprimersi a proposito delle scelte che i governi intendono operare, per contribuire a chiarire le alternative di fronte alle quali ci troviamo. Queste alternative sono riconducibili a tre ordini di problemi, riassumibili in altrettante domande: A) salvaguardare i trattati e l’acquis communautaire è sufficiente per garantire un futuro al progetto europeo?; B) gli Stati membri che mirano alla creazione degli Stati Uniti d’Europa devono semplicemente integrarsi di più tra di loro o devono finalmente unirsi?; C) la creazione dell’esercito europeo è una opzione reale se non si fonda uno Stato europeo? È necessario dare risposta a queste domande, scartando ogni soluzione fittizia o illusoria.

A – È comprensibile e giustificata la preoccupazione di chi vuole preservare l’acquis communautaire espresso nei trattati, perché esso fornisce il quadro istituzionale minimo per mantenere una cooperazione ormai indispensabile e irrinunciabile per gli Stati europei, le loro economie e le loro società. Per questo è nell’interesse di tutti i paesi europei l’adozione di un nuovo trattato, basato su quello costituzionale europeo più o meno snellito e ornato da qualche dichiarazione solenne e da qualche protocollo aggiuntivo: un trattato che nella sostanza emendi quello di Nizza e razionalizzi il funzionamento del complesso meccanismo comunitario. Quanto prima ciò avverrà, tanto meglio sarà. Altrimenti è facile prevedere il prolungamento a tempo indefinito di una “pausa di riflessione” durante la quale, essendo ambiguo l’oggetto su cui riflettere – una Costituzione che non è tale e che non ha come riferimento uno Stato –, il germe della sfiducia reciproca fra i diversi governi e Stati e quello della crescente disaffezione nei confronti del progetto europeo da parte delle opinioni pubbliche mineranno irrimediabilmente il consenso necessario non solo per fare avanzare l’Europa, ma persino per mantenere quella che già esiste.

Adottare un trattato di Nizza emendato, o comunque lo si vorrà chiamare, servirà a rimettere in marcia l’Europa partendo da due punti fermi. Il primo sarà costituito dalla conferma dell’impegno dei ventisette paesi a mantenere un quadro di cooperazione europea; il secondo dal fatto che essi non vogliono o non possono, nel loro insieme, fare di più: ossia dalla presa d’atto che un simile trattato, per poter essere condiviso e accettato da tutti, rinvierà sine die qualsiasi riforma in senso federale delle istituzioni europee. Questo equivarrà a riconoscere apertamente che, per un tempo indefinito, non esisterà su scala continentale un potere europeo per governare l’economia e la politica estera e di difesa. A quel punto, i governi ed i paesi che vorranno davvero salvare l’Europa dovranno, per essere coerenti e credibili, porsi concretamente il problema di andare oltre i trattati.

B – Questo ci porta a considerare la seconda alternativa di fronte alla quale si trovano i Paesi che si pongono il problema di salvare l’Europa. La scelta oggi non può più essere quella tra integrarsi più o meno velocemente stabilendo regole condivise, ma è diventata quella tra unirsi politicamente o restare divisi. Continuare a suddividere il processo di integrazione in una serie pressoché infinita di stadi, di formule di cooperazione e di combinazioni di gruppi di Stati membri, significa rinunciare a perseguire l’obiettivo finale dell’unificazione europea. L’Europa ad integrazione differenziata o a più velocità è da tempo una realtà nella costruzione europea, come dimostrano i casi del Benelux, pre-esistente alla nascita del Mercato comune, quello della zona dell’euro in campo monetario e quello di Schengen nel campo della libera circolazione. La vera sfida oggi consiste invece nel far nascere un’unione politica federale che, almeno all’inizio, sarà di pochi paesi, e di farla coesistere con l’Unione confederale di molti paesi a più velocità di integrazione che già esiste. Questa sfida potrà essere vinta solo a due condizioni. La prima è che alcuni governi con le loro classi politiche rinuncino alla strategia del gradualismo e dei piccoli passi. Questa strategia è stata infatti utile per portare i paesi europei fino alla soglia dell’unità politica, ma non è adeguata per andare oltre. La seconda condizione è riconoscere che l’esistenza di una federazione entro una confederazione di Stati pone certamente alcuni problemi tecnico-giuridici, ma che la loro soluzione sarà efficacemente risolta dagli esperti solo dopo che la decisione di unirsi sarà stata presa da un gruppo di governi e di paesi.

C – La creazione di un esercito europeo è urgente. Quando si considerano i problemi della stabilizzazione dei paesi dell’area di influenza ex-sovietica, che va dal Mare di Barents al Mar Nero, quelli dell’area del Grande Medio Oriente, che va dall’Egitto all’Afghanistan, quelli di gran parte dell’Africa, per citare solo le regioni più vicine ai confini dell’Unione europea, si comprende che sui paesi europei grava una grande responsabilità non solo per la tutela dei propri interessi, ma anche per la salvaguardia della pace mondiale. Da questo punto di vista i processi di integrazione e di allargamento possono servire per creare le premesse di una cooperazione pacifica tra paesi tuttora immersi in realtà storiche e sociali profondamente diverse, ma non per garantire il quadro di sicurezza necessario a rendere questa cooperazione stabile, difenderla e darle il tempo di consolidarsi. La stessa integrazione europea è nata e si è sviluppata grazie al fatto che la sicurezza dei sei paesi fondatori, sia sul piano militare che su quello dei flussi energetici e commerciali, è stata garantita dall’alleato americano. Nella misura in cui l’Europa occidentale non costituisce più il baricentro degli interessi strategici globali degli USA, spetta dunque agli europei occuparsi direttamente della propria sicurezza. Alcuni governi lo avvertono ormai con una certa chiarezza e si ricomincia a parlare di esercito europeo.

Orbene, la difesa e la politica estera costituiscono il campo in cui è più evidente l’impossibilità di avanzare per gradi. Qui l’alternativa è tra tenere più eserciti e apparati industriali militari nazionali, che tutt’al più cooperano ma che rispondono in ultima istanza ai rispettivi esecutivi nazionali, e creare un esercito europeo, con un comando di stato maggiore europeo che risponda ad un esecutivo europeo. La sconfitta della CED ha mostrato, oltre mezzo secolo fa, che non è l’esercito lo strumento per realizzare successivamente ed eventualmente lo Stato federale europeo, ma viceversa è quest’ultimo l’unico strumento per organizzare davvero la difesa dell’Europa. E la sua politica estera, aspetto inscindibile dalla difesa.

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I grandi cambiamenti che sono in atto sul terreno del nuovo ordine mondiale, delle sfide ecologiche e di quelle economiche, fanno pensare che per gli europei la possibilità di procrastinare le scelte stia per esaurirsi e che, per la terza volta a partire dal secolo scorso, si annunci per loro il momento di fare i conti con le conseguenze delle loro decisioni mancate. Le conseguenze del passato sono state due guerre mondiali. Per l’immediato futuro non è possibile prevedere sotto quali vesti si concretizzeranno gli effetti dei crescenti squilibri fra i diversi continenti in termini militari, ambientali, di benessere e giustizia. Gli europei possono limitarsi a mantenere solo l’Europa dei trattati, nell’illusione di essere risparmiati il più a lungo possibile dagli effetti delle prossime crisi. In questo caso è però facile prevedere che, al primo segnale di pericolo, ciascuno Stato cercherà di salvarsi da sé a discapito dei vicini, aggravando ulteriormente la situazione europea e quella internazionale. Oppure essi possono incominciare a costruire anche un’Europa fondata su un patto federale a partire dal gruppo dei paesi fondatori, con la Francia e la Germania in testa, per dar vita al primo nucleo di uno Stato federale europeo. Solo così si potrà garantire il futuro dell’Europa, ponendo le basi per creare il potere europeo indispensabile per provvedere alla sicurezza e allo sviluppo del nostro continente e per contribuire, insieme agli altri poli mondiali, ad impedire che l’anarchia internazionale prevalga.

Publius

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